Baccalà alla vicentina, una storia antica

Baccalà alla vicentina, una storia antica

Fino a dove si è spinta la grande migrazione che ha portato l’essere umano a colonizzare il nostro pianeta? I nostri progenitori si procacciavano il cibo con la caccia e la raccolta ed erano nomadi, cioè non rimanevano a lungo in un territorio, ma si spostavano spesso alla ricerca delle migliori condizioni di sopravvivenza conseguentemente, con ogni probabilità, ai trasferimenti stagionali degli animali.
Poi vennero la scoperta e la diffusione dell’agricoltura e dell’allevamento, la necessità di diventare quindi sedentari e di accorparsi in comunità sociali sempre più numerose che diedero il là alla nascita delle prime città.
Tale processo, durato migliaia di anni, viene ricordato come urbanizzazione. Le prime città di cui possiamo avere notizia possiedono il loro tratto comune nell’essere sorte in territori fertili come la valle dell’Indo, la Mesopotamia, l’Egitto – lungo il Nilo – e la Cina.
Il primo centro urbano riconoscibile come tale dai reperti è Çatalhöyük, in Turchia, e risale a circa seimila anni prima di Cristo. Tracce di un insediamento ancora più antico ci portano a Gerico, sulle rive del fiume Giordano, circa diecimila anni fa.
Come si può constatare, pertanto, tutto il pianeta allora conosciuto fu puntellato in numero vieppiù crescente da questi nuovi e vincenti sistemi di aggregazione, financo a raggiungere gli angoli più remoti.
La straordinaria capacità di adattamento che caratterizza la specie umana ha portato così a fondare città anche in luoghi poco accoglienti o addirittura ostili. La città più antica che possiamo trovare oltre il Circolo polare artico, per esempio, è Svolvær (68°14′N 14°34′E) nelle isole Lofoten, in Norvegia, la cui origine risale a circa cinquemila anni fa.
In quel lontano arcipelago, nel XV secolo, spinto dal mare in tempesta approdò in modo assai avventuroso un mercante veneziano, tale Pietro Querini, che trovò rifugio nell’isola di Røst. Capitano ed equipaggio furono soccorsi dalla popolazione autoctona (poco più di un centinaio di persone, ma assai accoglienti) e ospitati per circa quattro mesi, periodo durante il quale Querini stilò una relazione:
«Per tre mesi all’anno, cioè dal giugno al settembre, non vi tramonta il sole, e nei mesi opposti è quasi sempre notte. Dal 20 novembre al 20 febbraio la notte è continua, durando ventuna ora, sebbene resti sempre visibile la luna; dal 20 maggio al 20 agosto invece si vede sempre il sole o almeno il suo bagliore…gli isolani, un centinaio di pescatori, si dimostrano molto benevoli et servitiali, desiderosi di compiacere più per amore che per sperar alcun servitio o dono all’incontro…vivevano in una dozzina di case rotonde, con aperture circolari in alto, che coprono con pelli di pesce; loro unica risorsa è il pesce che portano a vendere a Bergen. (…) Prendono fra l’anno innumerabili quantità di pesci, e solamente di due specie: l’una, ch’è in maggior anzi incomparabil quantità, sono chiamati stocfisi; l’altra sono passare, ma di mirabile grandezza, dico di peso di libre dugento a grosso l’una. I stocfisi seccano al vento e al sole senza sale, e perché sono pesci di poca umidità grassa, diventano duri come legno. Quando si vogliono mangiare li battono col roverso della mannara, che gli fa diventar sfilati come nervi, poi compongono butiro e specie per darli sapore: ed è grande e inestimabil mercanzia per quel mare d’Alemagna. Le passare, per esser grandissime, partite in pezzi le salano, e così sono buone (…).»
Querini importò quindi a Venezia lo stoccafisso che praticamente da subito si fece apprezzare per la bontà e per la possibilità di essere conservato a lungo.
Rapidamente diffusosi in tutto il triveneto, il baccalà (questo il nome con il quale maggiormente si affermò) entrò a far parte delle abitudini alimentari dei nostri avi e, generazione dopo generazione, la sua ricetta è giunta, con qualche variante territoriale, fino ai giorni nostri. L’ingrediente principe per la sua preparazione è, ovviamente, il merluzzo essiccato meglio se della qualità denominata “Ragno” proveniente proprio dalle isole Lofoten (gli abitanti delle quali non ringrazieranno mai abbastanza la tempesta che portò i marinai veneziani a schiantarsi sulle loro coste, tant’è che negli anni ’30 del secolo scorso, in occasione del quinto centenario dell’evento, fu eretto un cippo in onore di Pietro Querini nell’isola di Sandøy).
Come spesso accade, anche in questa congiuntura la Casualità, la Necessità e la Creatività si sono unite per generare una prelibatezza con poche eguali, un piatto che è diventato un vero Re della nostra tavola.
“Bacalà alla vicentina, buono la sera e la mattina” recita un proverbio. Che siano un vecchio adagio o dei versi in rima, lo scopo permane quello di celebrare la morbida gioia di cui godono il palato e tutti gli altri sensi quando ci si siede, meglio se in allegra compagnia, davanti ad un piatto di Polenta e Baccalà opportunamente innaffiato da vino bianco o rosso dei colli berici.
Pubblichiamo, di seguito, una delle variabili più note della ricetta che ha contribuito a rendere leggendaria la cucina vicentina nel mondo.

Bacalà alla Vicentina (10/12 pers.)

  • 1 kg di stoccafisso secco della qualità “Ragno”;
  • 250 g. di cipolle;
  • olio d’oliva, meglio se non fruttato (mezzo litro ca.);
  • 3-4 sarde sotto sale;
  • mezzo litro di latte intero fresco;
  • farina q.b.;
  • 50 g. ca. di formaggio grana grattugiato;
  • prezzemolo;
  • sale e pepe q.b.
    Procedimento
    Ammollate lo stoccafisso, già ben battuto, in acqua fredda, meglio se corrente o cambiandola ogni 4 ore, per 3 giorni circa. Levate parte della pelle. Aprite il pesce per il lungo, togliete la lisca e tutte le spine. Tagliatelo a pezzi quadrati possibilmente uguali. Affettate finemente le cipolle, rosolatele in un tegamino con un bicchiere d’olio, aggiungendo le sarde dissalate, diliscate e tagliate a pezzetti; per ultimo, a fuoco spento, unire il prezzemolo tritato.
    Infarinate i pezzi di stoccafisso, irrorateli con il soffritto preparato, poi disponeteli, uno accanto all’altro, in un tegame di cotto o di alluminio, oppure in una pirofila (sul cui fondo avrete versato qualche cucchiaiata di soffritto prima di porvi il pesce).
    Ricoprite il pesce con il resto del soffritto, aggiungendo anche il latte, il grana, il sale e il pepe. Unite l’olio fino a coprire tutti i pezzi, livellandoli. Fate “pipare” (cottura a fuoco molto dolce) per circa 4 o 5 ore, muovendo di tanto in tanto il recipiente senza mai mescolare.
    Solamente l’esperienza saprà definire l’esatta cottura dello stoccafisso che, da esemplare a esemplare, può differire, di consistenza. Servite ben caldo con polenta in fetta o su un letto di polenta morbida: ricordate che il “bacalà alla vicentina” è ottimo anche dopo un riposo di 12 – 14 ore.

Per ogni approfondimento, storico o culinario, vi rimandiamo al fondamentale sito di riferimento della Confraternita del Bacalà alla Vicentina, 

www.baccalaallavicentina.it/la-confraternita

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